Il burnout altro non è che una sindrome da esaurimento ovvero uno stato in cui la persona si sente:

  • svuotata
  • apatica
  • affaticata
  • appesantita

Talvolta la persona perde il significato delle cose e della sua attività lavorativa. Spesso è accompagnata da rabbia, rancore, nervosismo, c’è una totale incapacità di staccare la testa nel tempo libero, il lavoro diventa così una macchia d’olio che si espande a tutte le ore della giornata.

Ci possono essere delle somatizzazioni fisiche messe in atto come conseguenza: cefalea, mal di testa, perdita dell’appetito, disturbi del sonno.

E’ una sindrome legata esclusivamente a tematiche di natura lavorativa, non si può andare in burnout per la propria relazione. Ci possono essere infatti situazioni lavorative che possono consistere in fattori di rischio. Il burnout è spesso associato a professioni d’aiuto, è prevalentemente presente in contesti come il medico, lo psicoterapeuta, l’infermiere, l’oss. E’ tuttavia vero che si può sviluppare in tutti i contesti nei quali ci sono alcuni  elementi, come:

  • orari insostenibili
  • carichi di responsabilità eccessive
  • insicurezza sia fisica che economica
  • poca soddisfazione ed efficacia
  • pochi livelli di successo come il lavoro con le malattie terminali
  • la monotonia

Questi elementi possono essere fattori di rischio alla generazione della sensazione di fatica e pesantezza oltre che rabbia, nervosismo e fatica a staccare il pensiero.

La domanda attuale che ci poniamo tuttavia è come cambierà la sindrome da burnout data la riorganizzazione lavorativa attuale seguita alla pandemia? Come cambierà la sindrome da esaurimento con lo smart working?

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