“Quanto e come saperne di psicologia influenza le relazioni con gli altri o le sue relazioni con gli altri?”
Oggi provo a rispondere a questa domanda che io e chiunque faccia il mio lavoro riceviamo spesso. Di solito a questa domanda si accompagnano battute molto scontate del tipo “allora mi psicanalizzi?” o “allora mi leggi nella testa?” e ancora “allora riesci a capire quali sono i miei bisogni più profondi?”. Io rispondo con un sorriso di circostanza ma quello che vorrei dire davvero non può essere riportato in questa sede!
Al di là di questo stereotipo abbastanza bieco, è vero che avere delle conoscenze di psicologia inevitabilmente incide non tanto sulle relazioni, nel senso che un terapeuta non si mette a lavorare quando si trova con amici o famiglia, quanto sul porre l’attenzione ad alcuni aspetti che, magari, chi non ha questo tipo di competenze non osserva. Ma come è normale che sia! Faccio un esempio semplice: l’ingegnere che da stereotipo è una persona organizzata, metodica, precisa, pulita tendenzialmente questa forma mentis la riporta anche all’interno della sua vita privata e ci si aspetta quindi che un ingegnere non lo sia solo nel momento in cui indossa la camicia e la cravatta ma anche nella sua vita privata. Allo stesso modo lo psicoterapeuta non è solamente il dottore all’interno della stanza di terapia ma alcune dinamiche, alcune caratteristiche e circostanze poi tende a replicarle all’interno della sua vita privata. Io ad esempio prima di fare lo psicologo e poi a maggior ragione anche dopo, ero e sono una persona tendenzialmente analitica nei miei confronti: mi sono sempre fatto molte domande e sono sempre stato curioso e attratto dalle dinamiche delle relazioni sociali.
È chiaro quindi che ci sia una commistione tra i due mondi. Diverso è se una persona utilizza le competenze che ha in una maniera un po’ gratuita, un po’ ingiusta, un po’ anche forzata e alterata, cioè fuori dal contesto. Sarebbe sicuramente sbagliato sia per le persone con le quali ho a che fare sia per me mettermi ad utilizzare in maniera precisa e volontaria delle competenze che ho dal punto di vista professionale perché altererei sicuramente la relazione: giustamente le persone non mi permettono di usarle, non me lo permettono perché non è giusto, perché ci sono altri tipi di regole che governano quel tipo di relazione e quindi tendenzialmente non vengono mai applicate queste competenze al di fuori della stanza di terapia.
Può accadere però che si esca dal campo della volontà e si entri nel campo dell’automazione o dell’inconscio, dell’istinto: in questo caso certe osservazioni nascono non perché io metto volutamente l’attenzione su qualcosa ma perché inevitabilmente, proprio per la forma mentis che ho, sono portato a vederle. In questo caso inevitabilmente molte cose vengono osservate, molte cose vengono percepite: dico spesso che fare una scuola di psicoterapia è una grandissima risorsa, perché permette di aumentare per cento la capacità penetrativa appunto del proprio pensiero, della propria capacità di osservazione, ma al tempo stesso è anche una condanna poiché fa indossare determinate lenti per interpretare il mondo che poi, però, non ci si può mai più togliere. Quando questa cosa inevitabilmente accade, quello che faccio è semplicemente ignorare le conclusioni che potrei trarne e sospendere il giudizio. Come noto che una persona è bionda, posso notare che ha un conflitto con uno dei suoi genitori ma non sono affari miei e non ho nessuna intenzione di entrarci: motivo per cui in realtà c’è un certo scollegamento tra la vita privata e la vita professionale, poiché la vita professionale è fatta da un intento esplicito, diretto e anche richiesto da parte del paziente di andare ad analizzare alcuni aspetti, di mettere in campo le proprie competenze. Viceversa la vita privata non richiede nulla di tutto questo.