Continuiamo la nostra miniserie sugli stereotipi della psicoterapia e della psicologia. Ho già realizzato due contenuti: uno in cui rifletto sul concetto del “dottore, ma alla fine io me la devo cavare da solo?”, e un altro sull’idea che in terapia si debba andare solo nel momento in cui si hanno problemi effettivamente gravi o percepiti come tali. Per approfondire queste riflessioni e magari aiutarti a valutare questi concetti da un punto di vista diverso, ti consiglio di guardare quei video.
Lo stereotipo della terapia infinita
In questo terzo video parleremo del terzo stereotipo legato alla terapia, ossia che la terapia riguarda percorsi indefiniti e potenzialmente infiniti. Spesso, ad esempio durante la prima telefonata con chi mi contatta per chiedere aiuto o nei primi colloqui, sento affermazioni come:
- “Ok, sì, dottore, però ho paura che questo lavoro sia particolarmente lungo.”
- “Non voglio fare una terapia che dura anni.”
- “Vorrei fare solo qualche colloquio.”
- “Ho già fatto percorsi in passato che mi sono stati utili, ma ho sempre avuto la sensazione di non capire bene dove stavo andando o cosa stavamo facendo, e a un certo punto mi sono stufato.”
Queste affermazioni spesso sottintendono una preoccupazione: l’idea di iniziare un percorso senza avere consapevolezza della strada intrapresa, senza capire cosa si sta facendo e perché. Questo porta a un senso di affidamento quasi passivo, in cui si deve sperare che il lavoro proposto dal consulente (in questo caso lo psicologo) sia in linea con le proprie aspettative. Capisco che all’inizio possa risultare difficile, anche perché richiede una grande fiducia nel professionista. Inoltre, queste considerazioni riflettono l’idea che il percorso possa essere potenzialmente più lungo di quanto la persona si aspetti come tempistiche legittime per la risoluzione del problema.
Un problema del passato: il rapporto sbilanciato
Credo che questo stereotipo sia molto dannoso per la professione. In passato, forse, queste preoccupazioni avevano un fondamento più concreto, ad esempio agli inizi del Novecento, quando la psicoterapia, come la conosciamo oggi, era ancora agli albori con i contributi di Freud e altri pionieri. A quell’epoca c’era un forte sbilanciamento nel rapporto tra lo psicologo/psicoterapeuta (o il medico/psichiatra) e il paziente, con un approccio molto autoritario e poco partecipativo.
Oggi, però, le cose sono cambiate. La società si è evoluta, e tutto è diventato più dialogico, contestabile e contrattabile. Le persone vogliono sapere esattamente cosa stanno facendo. Io stesso, quando mi rivolgo a un professionista, voglio sapere cosa aspettarmi: non accetto più in maniera passiva ciò che mi viene proposto. Allo stesso modo, le terapie moderne funzionano in questo modo. Non è più sufficiente “sedersi davanti a un terapeuta e fidarsi ciecamente di ciò che propone”.
Un approccio moderno: chiarezza e collaborazione
Personalmente, non mi piace lavorare così. Nel mio approccio, come in quello dei colleghi con cui collaboro, c’è la necessità di chiarire fin da subito tempi, modalità, obiettivi e tragitti percorribili per affrontare un determinato problema.
Ovviamente non si può dare una risposta definitiva già al primo colloquio o durante una telefonata. Ad esempio, non è possibile rispondere subito a domande come: “Dottore, quanto tempo ci vorrà? Quante sedute saranno necessarie per risolvere questo problema?” Tuttavia, è fondamentale arrivare, entro il terzo o massimo quarto colloquio, alla cosiddetta fase di consultazione, di cui ho già parlato in altri video. Questa fase permette di comprendere:
- Qual è il problema.
- Quali sono le cause, le origini, gli aspetti che lo generano e lo mantengono.
- Quali sono le possibili vie percorribili per affrontarlo.
A questo punto si restituisce una sorta di “mappa” alla persona, per farle capire cosa sta vivendo, perché lo sta vivendo e cosa può fare per affrontarlo. Inoltre, si stima anche il tempo necessario, sia in termini di numero di colloqui, sia di frequenza delle sedute. Questo permette di mantenere sempre la responsabilità e la possibilità, da parte della persona che chiede aiuto, di scegliere il grado di profondità dell’intervento.
La libertà di scelta: responsabilità reciproca
Ad esempio, si può dire:
- “Per me non va bene, è troppo, non è quello che mi aspettavo.”
- “Sì, è esattamente ciò che voglio. Grazie per avermi rassicurato rispetto a modalità e tempi.”
Secondo me, questa trasparenza è fondamentale. La terapia deve prevedere la possibilità di fornire una restituzione chiara fin dall’inizio, o comunque entro pochissimi incontri. Dall’altro lato, è importante che entrambe le parti — terapeuta e paziente — abbiano ben chiari tempi, modalità e obiettivi del percorso.
Alcune persone potrebbero aver bisogno solo di una consulenza, mentre altre di un percorso più lungo. Ma tutte, indistintamente, hanno bisogno di sapere in che direzione stanno andando, perché e in quanto tempo è legittimo aspettarsi dei risultati.
Conclusione
Per questo motivo, non sono affatto d’accordo con metodi che non prevedano questa chiarezza. È essenziale definire il problema, le modalità e i tempi della sua possibile risoluzione, affinché la persona che chiede aiuto sia sempre nella condizione di poter scegliere il tipo di intervento più adatto a sé.
Fammi sapere se questo discorso ti è chiaro. Fammi sapere anche se questa miniserie sugli stereotipi della psicologia ti è piaciuta, se l’hai trovata interessante e se ti ha aiutato a chiarire qualche dubbio o concetto sulla terapia.